Il dolore social(e)

Il 23 maggio 1992 ero sola in casa. I miei genitori erano andati al mare, faceva caldo e Roma si era svuotata per il weekend.
Stavo preparando un esame di design e avevo la tv che mi faceva compagnia.
Ricordo di esser stata 48 ore di fila con la tv accesa ad ascoltare tutti i tg e la faccia sui disegni sul tavolo, come in trance, con nessuno con cui poterne parlare fino al lunedì successivo…

Non c’erano i cellulari. I miei genitori non erano rintracciabili e i miei amici tutti fuori Roma nelle case al mare. Niente chat, email o hashtag di Twitter da seguire, per sentirsi meno soli in mezzo a tutta quell’angoscia.

Com’eravamo soli all’epoca.

E come sarebbe stato se fosse accaduto oggi?

Quasi 10 anni dopo, con l’11 settembre 2001 le cose erano diverse. C’erano i cellulari, e alla notizia dell’attentato ognuno di noi ha chiamato i propri genitori, i coniugi, i figli, i migliori amici per avvisarli, per condividere lo sgomento.

Con il terremoto dell’Aquila, dopo quasi un altro decennio, la notizia ha avuto un decorso ancora diverso, così il nostro dolore.
Ricordo nel cuore della notte le notizie che si rincorrevano su Twitter e su Friendfeed, con la polemica che sui giornali online e sul televideo la notizia apparve molte ore dopo la terribile scossa.

Ricordo che mi sentivo avvolta in un’onda collettiva di dolore, di incredulità e impotenza, ma che insieme cercavamo comunque di fare qualcosa: contattare le persone a noi care, far circolare le notizie, abbracciarci “virtualmente”…

Com’è evoluto il nostro approccio al dolore sociale, a quella forma di dolore che colpisce la collettività di fronte a eventi di così grande portata. In 20 anni siamo diventati ancora più coesi, così dipendenti gli uni dagli altri, grazie anche alle iper-connessioni che ci stiamo costruendo giorno dopo giorno, che ormai sarebbe giusto definirlo come un dolore social.

Che sia un bene o un male non lo so.
Era solo una riflessione ad alta voce e a tastiera aperta.

 

 

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